vincenza tomaselli

“Siamo le parole che pronunciamo” ho sempre pensato e il dizionario che mi hanno rifilato fin dai primi anni di scuola, non mi ha mai rappresentato. Spesso quello che leggevo, era l’opposto di quello che ogni parola mi suscitava a pelle: alcuni sostantivi, verbi e aggettivi li trovavo perfino contraddittori, mortificanti, depistanti. Certi non avevano nemmeno sapore e odore ed esprimermi e capire gli altri, era sempre più lontano dal mio percepire la realtà e la natura umana. Così, all’alba di un giorno qualunque, mi segregai nella casa che avevo appena acquistato, un meraviglioso palazzetto liberty dalla magiche fenici scolpite in testa ai balconi e cominciai a dare vita al mio vocabolario capovolto: espressione di un mondo dove ogni cosa sarebbe stata prima di tutto sentita e non impartita. Il linguaggio del mio mondo capovolto era decostruttivo e liberatorio di un nuovo modo di esprimermi e ricongiungermi con armonia alla vita.

Il mio microcosmo era il mondo del sentire leggero, pacifico, dove il “meno” era avversario vincente del “più”. Da quel momento in poi, le parole avrebbero raccontato quello che il suono a pronunciarle mi avrebbe suscitato e ricordato. Ma ricordato o rammentato? Partii da qui. Qual è la differenza reale fra questi due verbi? Uno derivava dal latino coris (cuore) l’altro da mens (mente). Quale scegliere. Quale più vicino a me. Le cose importanti come gli affetti, i tramonti, il primo bacio, una notte stellata o la contemplazione di un’opera d’arte erano sentimento, quindi le ricordavo. Quelle futili come una bolletta da pagare, un incontro col dovere o un appuntamento con l’orgoglio erano da rammentare e quindi poco degni di nota. La mente infatti è il primo ostacolo alla digestione della vita e io volevo disintossicarmi dalle scorie.

Così, nel mio dizionario capovolto “rammentare” sarebbe stato depennato in funzione di una leggerezza mancante e di cui ero famelica.

I giorni passavano senza sentire anima viva così analizzai la parola sostantivo da sempre me lo frizionavo sulla pelle e mi faceva allergia, mi irritava. Una forma di orticaria spontanea di cui non riuscivo a liberarmi. Allora ebbi un’illuminazione. Soli-Tudine… che sia un’insolita latitudine del sole da apprezzare senza crema protettiva? Mi sa proprio di si. Quel suono e quel senso mi convinceva. La Solitudine non è un universo triste, anzi, è di formazione. Nella solitudine, la carne si fa più spessa e col tempo non ci si brucia più. D’un tratto mi sentivo gioiosa. Stavo capovolgendo ogni cosa e sapevo che sarei finita in coda con questa nuova testa ma alla solitudine dei numeri primi, ormai prediligevo il caos di quelli unici perchè era più divertente ed entusiasmante.

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